LA CITTÀ DELLA cometa (Scena 5)

Scena 5

La fine del nostro viaggio

Verso il Santuario

Da questa posizione non possiamo vederla, la stella cometa: al massimo, alzando gli occhi al cielo, un leggero bagliore indica che la direzione da seguire è quella giusta.

Verso il Santuario (ph. Marino Lamolinara)

Ci troviamo esattamente nel punto in cui sorgeva una della porte di accesso al paese, Porta Stampatis, oradistrutta: una ripida scalinata, la via omonima, invita ad intraprendere un piccolo viaggio nel viaggio, stavolta in salita. Il senso è opposto rispetto a quello immaginario, onirico, spirituale – oltreché fisico, per chi vorrà intraprenderlo davvero- che ci ha suggerito Benino all’inizio del cammino ma la finalità è la stessa: l’incontro con la Luce. Il Bambino stavolta è lì, tra le braccia della Vergine assisa in trono, dietro l’altare del Santuario della Madonna della Pace,quest’ultima venerata a Morcone da tempi remoti per il suo esser prodiga di miracoli, scrupolosamente documentati e mai dimenticati dai fedeli.

“Sussulta il cor d’un fremito

sol che ci appar Tuo viso

che allieta pure gli Angeli

lassù nel Paradiso”

Recita così l’Inno alla Madonna della Pace, canto tradizionale che si intona durante le celebrazioni in suo onore. In questi versi iniziali è racchiuso tutto l’amore filiale di un popolo per la sua Mamma, dal volto dolce e rassicurante che, da millenni, protegge i suoi figli.

La si festeggia due volte all’anno: il 21 maggio, ora in sordina, ma fino a buona parte del secolo scorso con molta enfasi religiosa e smisurata devozione, e l’8 settembre, data ancora oggi maggiormente sentita, quando alle celebrazioni religiose si accompagnano i festeggiamenti civili.

Un forte legame con il territorio, addirittura con la terra in senso stretto, pare collegare Morcone alla Madonna: si racconta che nel Medioevo la statua lignea che la raffigura sia stata ritrovata sepolta in un terreno della zona Stampa, nei pressi di Cuffiano – la contrada più grande di Morcone, per popolazione e per estensione del territorio: fu portata lì dove oggi sorge la chiesa dagli stessi abitanti che, a causa di calamità naturali occorse nelle zone rurali in cui risiedevano, si trasferirono nella parte alta del borgo, sperando in condizioni di vita migliori.

Nacque così, intorno al 1100, la chiesa di Santa Maria de Stampatis, la cui importanza crebbe, col passare dei secoli, per merito della fama di benevola dispensatrice di grazie dell’icona ivi custodita.

Da quel lontano ritrovamento il legame tra noi morconesi e la Madonna della Pace non si è mai affievolito – per quanto, nel tempo, le manifestazioni di religiosità popolare siano notevolmente cambiate- e la sua figura è una delle più dolci e care che possiamo immaginare.

Ragion per cui un viaggio all’interno del presepe e dei suoi personaggi principali non poteva non avere come tappa la dimora morconese della mamma di Gesù.

San Bernardino e Via dei Caffè

Scendiamo dal santuario e ci ritroviamo nella zona detta la Piazza, il cuore del centro storico del paese, che attraverseremo per giungere alla grotta indicata dalla cometa.

Piazza San Bernardino è un interessante punto d’osservazione sul borgo. È una sorta di grande terrazza che si affaccia sulla valle del Tammaro dove notiamo, laggiù sulla destra, una lunga macchia blu che solo di recente, negli anni Novanta, è divenuta parte del paesaggio: è il lago di Campolattaroformatosi in seguito alla costruzione della diga sul fiume Tammaro – compreso nell’Oasi omonima, parco protetto del WWF.

Verso Piazza San Bernardino (ph. Marino Lamolinara)

La piazza viene sovente definita il salotto di Morcone, per la sua struttura che pare una platea, incorniciata da quell’imponente scenografia naturale costituita dalla cascata di case che già conosciamo e che, da questa prospettiva, pare abbracciare chi la osserva. D’estate, spesso, platea lo diventa davvero, ospitando spettacoli teatrali, concerti ed altri eventi culturali. E d’inverno, parimenti, potrebbe diventarlo – freddo permettendo!- per la rappresentazione de La Cantata dei Pastori. La piazza sarebbe lo sfondo perfetto per questo dramma sacro composto verso la fine del Seicento da Andrea Perrucci, rivisto e ripubblicato più volte fino alla versione più recente ospitata dai teatri napoletani negli ultimi anni: la regia di Peppe Barra e Paolo Memoli fanno rivivere questa storia attraverso un allestimento senza tempo, la cui messa in scena conserva la semplicità del teatro popolare e ne lascia intatta la magia.

La Cantata raccontale vicissitudini di Maria e Giuseppe prima della nascita di Gesù, ostacolata in tutti i modi dal Diavolo e protetta con fermezza dall’Arcangelo Gabriele: la sacra coppia, grazie ai suoi tempestivi interventi, giunge sana e salva alla grotta dove viene alla luce il Verbo Umanato. Alla parte sacra si aggiungono frizzi, lazzi e divertenti e innocue volgarità di Razzullo e Sarchiapone, due personaggi comici popolari, poveri in canna, perennemente affamati, che si trovano in Palestina per sbarcare il lunario e diventano inconsapevoli testimoni della nascita di Gesù: sacro e profano, serio e faceto si intrecciano e si completano, così che pare davvero di trovarsi davanti ad un presepe a grandezza d’uomo, nel nostro caso incastonato nella scenografia perfetta della città della cometa.

Parlavamo di salotto che, abitualmente, è l’ambiente più curato della casa, quello dove si tengono in bella mostra gli oggetti più preziosi; non è da meno la nostra piazza, tant’è che “la chiesa morconese dedicata al santo di Siena fu costruita nel cuore dell’abitato in una posizione stupenda laddove preesisteva – come narrasi- un’omonima cappella” (da Morcone. Premonografia,di Padre Tommaso).

L’edificio sorto in questa posizione privilegiata non è una chiesa qualsiasi ma è quella dedicata al patrono di Morcone, San Bernardino – o Santo Lardino, nel più confidenziale dialetto- che, secondo una tradizione mai confermata, passando per Morcone a predicare avrebbe perso un sandalo, o chianéllo, lungo la strada oggi chiamata, appunto, Pianello.

La chiesa, costruita tra il 1515 e il 1580 nell’omonima piazza, pare che fosse la più bella del paese, come testimonia un’acquaforte – nota a tutti i morconesi- che riuscì ad immortalarla prima che venisse distrutta quasi completamente da un terribile incendio, in una notte di maggio del 1917. Rimase in piedi la facciata e poco altro. E pensare che il santo patrono, la vigilia del giorno a lui dedicato, il 19 maggio, si festeggia proprio con il fuoco, accendendo in suo onore un grande falò, ro pagliaro: fino a tempi non troppo lontani, lo si faceva sulla stessa piazza San Bernardino, mentre ora si prepara nel vecchio campo sportivo, in uno spazio più grande e più facilmente raggiungibile. È un piacevole ed irrinunciabile rito, oltre che di devozione religiosa anche di convivialità, sottolineata, spesso, dall’offerta di taralli e vino a chi vi partecipa.

L’antica chiesa distrutta dalle fiamme oggi è l’Auditorium San Bernardino: a settant’anni dall’incendio, nel 1987, l’edificio è stato restituito alla comunità in un’altra forma, quella di una struttura polifunzionale divenuta uno dei punti di riferimento della vita aggregativa e culturale del paese (unitamente, da un paio d’anni, al Centro Universitas, teatro di recente costruzione ubicato nella parte bassa di Morcone).

Via dei Caffè, oggi parte di Corso Italia (ph. Marino Lamolinara)

Attorno alla piazza e nell’attigua Via dei Caffè (oggi parte di Corso Italia)c’erano, e ci sono stati fino alla metà del secolo scorso, diversi bar, attività commerciali o di artigianato. Oggi, a testimoniare la frenesia di un tempo, rimangono qualche negozio e un paio di botteghe che, in determinate occasioni, riaprono i locali dove si svolgono i mestieri di un tempo: a dare senso all’antico ed elegante nome della strada ci pensa un bar “storico” – di nome e di fatto, continuando la tradizione di caffè già esistenti nel passato – diventato, nel tempo, un punto di aggregazione per i pochi abitanti della zona e per i numerosi morconesi d’austo che popolano il centro storico d’estate, soprattutto, appunto, ad agosto. È un importantissimo baluardo di vitalità per una zona che soffre particolarmente l’annoso problema dello spopolamento.

Facciamo un salto indietro nel tempo, accompagnati dalla suggestione del periodo natalizio, e tra le botteghe che affollano la via immaginiamone una dove un abile artigiano modella l’argilla: è il regno di un figurinaio, dalle sue mani vengono fuori il piccolo Gesù, gli angeli, gli osti e tutti i personaggi che andranno ad affollare la rappresentazione della nascita divina. È da notare che “il pastore che fa i pastori” è uno dei paradossi narrativi che il presepe si concede, mentre la presenza di una bottega artigiana non tradizionalmente morconese è una licenza di chi scrive: stiamo pur sempre passeggiando in un immaginario presepe a grandezza naturale!

Torniamo nel locale, dove lo scultore sta creando i pastori dando loro vita a partire da un semplice impasto di acqua a terra: un atto creativo estremamente evocativo, non c’è dubbio. Non faremo paragoni blasfemi, per carità, ma ci limitiamo a riportare quanto scritto da Marino Niola in un suo libro di qualche anno fa, in cui definisce quello dello scultore presepiale un ruolo demiurgico in quanto, in sostanza, “si tratta di fabbricare il sacro, di dargli volto e corpo domestici. È stato opportunamente notato che solo nella Napoli del Settecento poteva capitare con tanta facilità a semplici uomini di scorciare la barba al Padre Eterno, rifare il naso alla Madonna, cangiare il fiore sulla mazzarella di San Giuseppe” (da Il presepe, di Marino Niola). Capitava nel Settecento e capita ora, nelle botteghe degli eredi dei figurinai dell’epoca, dove il metodo di lavoro non è cambiato: testa, mani e piedi, una volta modellati, vengono dipinti e montati su un corpo di ferro filato e stoppa, successivamente vestito con stoffe pregiate, tagliate e cucite in misure lillipuziane per donare ad ogni pastore il proprio abito di scena. Poi, il debutto sullo scoglio, la struttura in legno e sughero su cui poggia l’intero presepe (a cui, ricorderete, nella Scena 1 abbiamo paragonato la nostra Prece).

Il pastore che fa i pastori, opera de La Scarabattola, Napoli (ph. Sergio Siano)

Scendendo scendendo iniziamo a sentire le urla dei mercanti in piazzetta San Marco e, un po’ più su, le chiacchiere delle lavandaie vicino al lavaturo; poi usciamo fuori la porta al cospetto della Prece e, seguendo la cometa ora ben visibile, camminiamo verso la grotta passando vicino al mulino…ma queste storie le conosciamo già, abbiamo già percorso queste strade ed incontrato questi personaggi.

Ci fermiamo, quindi, e finiamo qua il nostro cammino insieme.

Conclusioni

Cari lettori, il viaggio nella Città della Cometa termina qui.

Vi ringrazio per avermi seguito in questo racconto inusuale della nostra Morcone: è stato emozionante percorrere insieme strade conosciutissime osservandole con sguardo nuovo.

Sguardo che, evidentemente, è frutto del mio essere napoletana d’adozione da circa metà della mia vita: non solo perché ho parlato di presepe, quest’arte antica ma sempre attuale che, da svariati anni, è parte del mio lavoro, ma anche per la struttura del racconto, in cui l’incontro di elementi diversi finisce col costruire un’unica narrazione che, spero, abbia appassionato voi nel leggerla quanto ha appassionato me nello scriverla.

È qualcosa di tipicamente napoletano, credo: mescolare per arricchire, stratificare per non perdere, unire per dare, paradossalmente, più valore ancora ad ogni singolo elemento. È qualcosa che entra dentro, a quanto pare, e se non lo fa dovrebbe essere insegnato: perché mettere insieme piuttosto che separare non sia solo il modo di costruire un bel racconto ma diventi una pratica quotidiana, da applicare sempre, in ogni ambito della vita.

La descrizione di Morcone non è stata esaustiva, non sarebbe potuto esserlo. Prima di tutto perché un luogo si può raccontare in infiniti modi, utilizzando svariate chiavi di letture, perseguendo mille finalità diverse, proponendo tanti possibili itinerari e, per forza di cose, tralasciandone altri. E poi perché il racconto è sempre una scelta e, quindi, offre una certa visione e accompagna lo sguardo verso una data direzione: la città della cometa ha scelto di unire la scoperta di un borgo a quella di un’arte antica, che parla dell’uomo all’uomo.

I pastori in terracotta, che si sono mescolati a quelli in carne e ossa del presepe vivente, hanno offerto un piccolo spaccato dell’animo umano, prima ancora che l’opportunità di conoscere il borgo in cui hanno agito. O, meglio, hanno cercato di offrire l’uno e l’altra, contemporaneamente.

A proposito di sguardo, La Città della Cometa è stato anche un viaggio per immagini, soprattutto per chi l’ha seguito su questo blog o sui miei profili social: Marino Lamolinara ha regalato i colori alle mie suggestioni create con le parole, Il laboratorio artistico La Scarabattola di Napoli ha dato un corpo ai vari personaggi del presepe napoletano che ho citato scena dopo scena: un sentito grazie va anche a loro.

Un’ultima cosa, ma non certo per importanza: La Città della Cometa diventerà anche un libro, pubblicato per i tipi della Kinetès Edizioni.

Quindi, ci risentiremo per gli sviluppi futuri.

A presto!

(da LA CITTADELLA, dicembre 2020)

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