Scena 1
Il nostro “scoglio”
Morcone sorge su un pendio del monte Mucre e si affaccia sulla sottostante valle del Tammaro.
Il borgo, che si è sviluppato su un insediamento sannitico, poi gastaldato longobardo, è di origine medievale ed era circondato da mura erette a difesa da tutti i versanti tranne che verso Mezzogiorno, dove la Prece, uno spuntone di roccia posto a precipizio, quindi totalmente inaccessibile, fungeva da perfetta difesa naturale.
“Al viaggiatore (…) improvvisamente appare, sullo sfondo del Matese, una fantastica cascata di case, che dalla vetta scende lungo il pendio di un monte. È Morcone che si presenta in modo così vivamente pittoresco!” (Morcone e le sue porte, di Francesco D’Andrea, già in Passeggiate campane, di Amedeo Majuri).
Questa fantastica cascata di case, come ormai ben sappiamo, è fatta ad immagine e somiglianza di un presepe napoletano. La sua struttura, infatti, è perfettamente assimilabile al cosiddetto scoglio, la scenografia del presepe, la base prevalentemente in legno e sughero sulla quale vengono organizzate le diverse scene della raffigurazione della nascita di Gesù.
E cosa si fa davanti ad un presepe? Lo si ammira da destra e da sinistra, si alza lo sguardo verso il castello e i pastori piccoli piccoli, quelli in lontananza, per poi scendere con lo sguardo tra le acque del torrente ricostruito ad arte. Si presta attenzione ad un dettaglio, poi ad un altro, ci si chiede chi sia quel personaggio, perché stia proprio lì e non altrove…e si aspetta che qualcuno ce lo racconti, magari mischiando un po’ le carte tra un presepe a grandezza naturale, il presepe vivente che vi si rappresenta e le tante storie legate al presepe napoletano tradizionale.
Il viaggio di Benino
La Rocca, zona alta di Morcone, circa 600 m sul livello del mare: da un lato i ruderi del Castello da cui, a ventaglio, ha iniziato a espandersi la Morcone medievale, “come un paesaggio con tante stradine e viottoli in discesa, che portano al punto più basso, quello centrale, dov’è posta la grotta divina” (Il presepe popolare napoletano, di R. De Simone); dall’altro lato la chiesa di San Salvatore, la più antica di Morcone, oggi adibita a centro polifunzionale dopo un accurato restauro avvenuto in anni recenti.
È notte fonda: secondo la tradizione, infatti, la scena presepiale è immersa nelle tenebre, dai più tradizionalisti rischiarate solo da minuscole lampade ad olio ricavate da mandarini svuotati e tagliati a metà. E fa freddo, molto freddo. Si sa, la bora morconese regala meravigliosi cieli stellati ma fa battere i denti.
Si ode un canto: “Era una notte di luna, una notte d’argento, c’era qualcosa di magico nel firmamento, e in quella grotta laggiù, quel che sognasti anche tu, c’era una luce abbagliante, un immenso splendore” (Sogno di Armenzio, da La cantata dei pastori di Peppe Barra e Paolo Memoli). È Armenzio, anziano pastore, padre di Benino, il personaggio inaspettatamente più importante del presepe, il fanciullo che dormendo lo sogna e così gli dà vita. Il suo sonno è foriero di visioni celestiali, le stesse che sta raccontando il vecchio genitore: la meraviglia del creato nella notte in cui nasce il Redentore.
Oltre ad essere padre e figlio, insieme rappresentano una delle tante dualità che si incontrano sul presepe: Armenzio, il vecchio padre, incarna l’anno morente mentre il piccolo Benino è il simbolo dell’anno che verrà, della vita nuova.
Il pastorello stava dormendo sotto una piccola spelonca ai piedi del Castello, quella all’inizio della discesa che porta alla chiesetta campestre di San Rocco: è un posto che sa di altri tempi, legato agli odori delle mattine d’estate quando, durante la novena in preparazione alla festa del santo, si partecipa alla funzione celebrata all’alba.
Destato dal padre, seppur controvoglia, Benino inizia a scendere da quell’alto, scosceso e quasi inaccessibile precipizio che è la Prece: imbocca un sentiero ripido, per nulla rassicurante ma senza dubbio suggestivo, sospeso com’è tra il cielo e la terra. Lo conoscono bene i figuranti del Presepe nel Presepe che lo percorrono ogni anno per andare ad adorare Gesù, quando “una, dieci, cento fiaccole si accendono e guidano i popolani lungo le impervie strade che portano al Dio Bambino” (dal commento de “Il Presepe nel Presepe”), quel piccolo Re, interpretato dall’ultimo nato nel paese, che viene alla luce nella grotta ricostruita nel Parulo, la vallata in cui si giunge alla fine del sentiero.
Il viaggio di Benino è la metafora di un cammino interiore, compiuto nelle tenebre del paesaggio notturno e affrontato attraversando le tenebre dell’animo umano. Benino il giovinetto, l’animo puro, è anche la guida iniziatica che ci conduce verso la Luce della nascita e della ri-nascita, quella Luce capace di sconfiggere il buio della morte. Tenendo fede alle storie tramandate nel tempo dai presepisti più accorti, davanti alla grotta Benino si trasforma nel Pastore della Meraviglia, diventa un uomo, un adulto che però conserva l’innocenza di chi sa ancora stupirsi: davanti al numinoso, accecato dalla rivelazione, rimane a bocca aperta incapace di proferire parola.
La stessa grotta a cui giungono gli adoranti non è un semplice elemento del paesaggio, tutt’altro. Ha una forte valenza simbolica, come spiega R. De Simone: “la grotta dove nasce il Bambino è illuminata unicamente da teofanie celesti, quali astri splendenti che improvvisamente appaiono a rischiarare le tenebre. Essa è chiaramente collegata al mondo degli inferi, secondo la simbologia dei miti più antichi, ma è anche interpretabile come una linea di demarcazione tra l’inconscio e il razionale, tra la coscienza e il limbo dove sono presenti i mostri del buio e dell’irrazionale. La grotta rappresenta, insomma, quel limite crepuscolare fra la luce e le tenebre, fra la nascita e l’informe mondo che la precede, è segno femminile per eccellenza ed è soglia di accesso al mistero, al caos, alla morte, all’incomprensibile, al divino. Per la sua pregnanza significativa la grotta, come simbolo del Natale, è il luogo che meglio di ogni altro esprime il senso della nascita divina.” (da Il presepe popolare napoletano, di R. De Simone).