Memeorie ipogee, di Emanuele Scuotto

in mostra all’ARCOS – Museo d’Arte Contemporanea Sannio di Benevento.

San Gennaro, Anime del Purgatorio e Crocifisso, opere dello scultore Emanuele Scuotto, nell'allestimento al Museo ARCOS di Benevento
San Gennaro, Anime del Purgatorio, Crocifisso.

Dal 1 aprile e fino al 28 maggio, presso il museo ARCOS di Benevento, è possibile visitare Memorie ipogee, personale di Emanuele Scuotto a cura di Azzurra Immediato.

Di seguito, il mio testo che accompagna lo sguardo del visitatore che si addentra nel mondo dello scultore napoletano.

Buona lettura!


Memorie ipogee, di abissi e di ritorni.

Si può intrappolare nella materia l’essenza di un popolo, incastrando nella terracotta la più arcana delle memorie da esso tramandate? E la si può trasformare in una nuova lente attraverso cui guardare il presente?

Memorie ipogee, personale di Emanuele Scuotto a cura di Azzurra Immediato, è una riflessione sui nostri giorni visti attraverso la lente di un immaginario ricco di simboli e astrazioni quale è quello della tradizione popolare napoletana, indissolubilmente legata al dna dell’artista.

Egli modella le sue parole nell’argilla e intreccia storie di oggi con simboli e personaggi che vengono da lontano, da un passato ricchissimo che è la materia con cui lavora ogni giorno. Egli plasma la tradizione mescolandola alla contemporaneità, e ce la restituisce epurandola da qualsiasi accenno di folclore e privandola di ogni stereotipo. Trasformandola, dunque, in un potentissimo linguaggio universale.

Teste sognanti, installazione di Emanuele Scuotto presso il museo ARCOS di Benevento.
Teste sognanti e San Gennaro.

Ad un confine sussurrato, non troppo lontano eppure non così vicino, paiono appartenere le teste sognanti nei cui volti si intravede la vita che è stata e che non è più. Il velo che percepiamo non copre, piuttosto rivela che ci troviamo davanti ad un limen, una soglia tra la vita e la morte, in bilico tra terreno e ultraterreno e, inaspettatamente, tra memoria e oblio: sì, perché si muore davvero solo se si è dimenticati, pare, tanto che i volti di coloro che sfuggiranno alla dimenticanza sono diversi, accesi di luce, e brillano di quell’attenzione che li ha sottratti alla morte vera.

Osservandoli percepiamo che giungono da altri luoghi sotterranei, nascosti alla vista ma non al cuore, dove venivano venerati – e non di rado lo sono ancora – affinché, per un patto sottoscritto con l’aldilà, aiutassero chi la vita doveva ancora viverla, tribolando, qui da noi. Ed ecco che i teschi che si intravedono lì accanto non ci appaiono più come un barocco richiamo alla vanitas ma si svelano in tutta la loro chiarezza: riportano queste capuzzelle a casa, nelle catacombe partenopee, cavità di tufo in cui la vita non è meno viva che in superficie.

A Napoli, ieri come oggi, la vita non finisce con la morte, semplicemente si trasforma.

Di ritorni, si accennava: ve n’è uno, importante, inaspettato, significante.

Vescovo a Benevento, martire e patrono onnipotente a Napoli: è San Gennaro, figlio del Vesuvio più di quanto non attestino le sue incerte origini. È fatto di lava e di sangue, di dolore e di forza, di fede incrollabile e assoluta, senza cedimenti. Quello rappresentato da Emanuele Scuotto è ieratico, alza lo sguardo al cielo perché è stanco di guardare in basso, verso le solite miserie. Ma è anche un uomo che implora aiuto per chi gli chiede aiuto, in un gesto di amore totale nei confronti del suo popolo. Che lo acclama, lo implora, lo sbeffeggia – finanche – se non adempie ai suoi doveri, anche quando questi servono solo a colmare le debolezze di chi lo prega e si abbandona, con ignavia, al suo salvifico miracolo. È amato in maniera viscerale, tra fede e superstizione, ed il suo mistero, più potente di ogni dubbio forestiero, è racchiuso in una serratura impossibile da aprire, inviolabile.

Dipanare, opere in terracotta dello scultore Emanuele Scuotto
Dianare

Ancora martiri, seppur pagane; Dianare, lontane discendenti della dea Iside, la Signora di Benevento venuta da lontano, la cui presenza aleggia ancora nel museo e nella città nonostante i tentativi di cancellarne ogni traccia quando il Cristianesimo ha imposto il suo credo.

La sapienza acquisita e il mistero che le avvolgeva furono i loro carnefici.

Erano streghe perché detentrici dei segreti del mondo terreno; erano eretiche – ma è eretico chi innalza il rogo, non colei che vi brucia dentro (Il racconto d’inverno, W. Shakespeare) – perché sapienti, vittime della propria conoscenza e dell’altrui ignoranza.

Una figura che affiora dal passato, seducente e temuta: la bella ‘mbriana. Benevola ma capace di tremende vendette, adorata per amore e per paura, giunge a noi dall’immaginario di un passato che nella terra di Partenope non lo è mai per sempre. La troviamo dove luci e ombre si confondono, dove il vero sfugge ad ogni logica ed il mistero è più vero del vero. Affascina, rapisce, ammalia.

E intesse un dialogo muto con un’altra donna, dallo sguardo fiero e la posa austera, Santa Lucia. Un manichino, anima degli antichi santi impolverati nelle vecchie sagrestie, corroso dal tempo e ridotto all’essenziale, diviene il corpo di una giovane guerriera che non conosce violenza.

Diavolo nero, incatenato: scultura in terracotta, nera, che rappresenta il busto di un bellissimo, giovane diavolo
Diavolo nero

Un diavolo in catene, affascinante come solo il Male sa essere, imprigionato e forse impotente, almeno nell’istante in cui è stato ritratto. È un divertissement dell’artista: forte della sua mano sicura che modella suggestioni, Scuotto ci mostra il Signore delle Tenebre in tutto il suo umanissimo splendore e, forse, si fa beffe di noi che, colpevoli, ne rimaniamo incantati. O, magari, ci mostra le insidie che si nascondono dietro le sue meravigliose fattezze. Le stesse dei beffardi satiretti, protagonisti dell’eterna danza degli opposti insieme ai putti che sembrano provenire dall’Oratorio di San Lorenzo del Serpotta: nel monolite barocco, nel contrasto tra linee pure e virtuosistiche sinuosità, generano entrambi dalla stessa informe materia.

Di abissi, si accennava: quelli delle profondità del mare e quelli delle profondità dell’animo umano, non più distinti in questa potente installazione che esprime tutta la forza evocativa della scultura di Emanuele Scuotto: senza compiacersi del dolore, egli non lo mostra ma lo sublima, ed a noi che lo guardiamo arriva più forte che se urlasse.

Ci sono uomini e donne ancora vivi, sì, ma per poco: l’indifferenza li ucciderà. Il loro volto è serafico, la loro richiesta muta. Sono avvolti non dalle fiamme delle anime del Purgatorio – di cui sono chiaro riferimento – ma dall’acqua: elemento da cui origina la vita, elemento che causa la morte.

Un crocifisso alle loro spalle, spogliandosi della sua divinità, diventa simbolo di quel primordiale senso di umanità che, inesorabilmente, sta scomparendo lì davanti, insieme al più semplice dei gesti che rendono l’uomo tale: prendersi cura l’uno dell’altro.

Non c’è retorica in questo e non c’è giudizio: il nostro scultore non cerca facili sentimentalismi e non punta il dito ma, attraverso le sue opere, mostra il dolore di un Purgatorio in terra scontato senza alcuna colpa. E, attraverso una grazia formale che affascina e quasi inganna, Emanuele ci restituisce – senza indulgenza – un senso profondo e disturbante di sacralità violata in cui sentiamo di annaspare: l’Arte, del resto, toglie il respiro e non lascia scampo.

Fa che io non sia una vistosa virtù, ma un oscuro grembo

Fa che io non resti nelle tre dimensioni, dove si nasconde la morte

Fa che io sia l’insondabile architettura per raggiungere l’universale

Questi comandamenti, “suggeriti in solitudine dalla scultura” attraverso il pensiero e la penna di Arturo Martini – in La scultura lingua morta e altri scritti –, si riescono a percepire con forza e chiarezza in ogni opera di queste memorie ipogee di Emanuele Scuotto.

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