“Gli dèi odiano gli uomini”

Il trittico “Pasolini, Palinuro e il mare” di Giuseppe Leone in mostra sulla Nave Palinuro

(da Il Sannio Quotidiano in edicola domenica 25 settembre 2022)

L’evento

“Gli dèi odiano gli uomini”: lo dice senza temere di scatenare l’ira dei primi e la paura dei secondi, Giuseppe Leone, mentre parla della sua opera Pasolini, Palinuro e il mare presentata all’inaugurazione della ventisettesima edizione del “Premio Penisola Sorrentina Arturo Esposito” tenutasi sulla Nave Palinuro, meraviglia di ingegneria nautica e orgoglio della nostra Marina Militare. L’evento, presentato dal direttore del Premio, Mario Esposito, si è svolto a Napoli lo scorso 17 settembre.

La Nave Palinuro, una delle golette della Marina Militare Italiana
La Nave Palinuro ormeggiata nel Golfo di Napoli

Giuseppe Leone in mostra sulla Nave Palinuro

Saliamo sulla goletta e siamo accolti dal trittico di Leone, nella suggestiva ed inusuale location ormeggiata al Molo Angioino dove è esposto per l’occasione. A far da sfondo, Partenope da un lato, il Vesuvio dall’altro.

Ma, dicevamo, Pasolini, Palinuro e il mare: perché?

L’intelligenza, la risolutezza, la genialità dei Mortali offendono gli Immortali, tanto da non lasciare scampo all’uomo colpevole di scatenare la loro invidia e, di conseguenza, la propria morte.

Palinuro, mitico nocchiero di Enea, cade in mare e viene consegnato alla furia degli abitanti della costa presso cui approda: verrà brutalmente ucciso su una spiaggia.

Pasolini, scrittore, regista, drammaturgo dal talento tanto sfrontato da divenirgli nemico, in una notte di novembre del 1975 verrà brutalmente ucciso su una spiaggia.

Un mito antico e un mito contemporaneo, dunque, resi immortali dalla violenza con cui vennero strappati alla vita. Perché non si sceglie di diventare miti, piuttosto si è scelti per diventarlo: dagli dèi, dalla vita, dall’Arte.

Il trait d’union che fonde in un tutt’uno le due tragiche morti – che nell’opera si rispecchiano l’una nell’altra – è il mare: è il blu di Giuseppe Leone, un colore solo suo che ricava attraverso un rapporto alchemico con i materiali in un lavoro, intimo, che precede l’atto creativo da cui prende forma la sua visione. Ed è un mare in cui non s’annega, quello del Maestro sannita: l’occhio di chi osserva, oltre i profili neri dei protagonisti, trova sicuro approdo nella sua scrittura senza suoni, nella sua grafia afona che, togliendo ogni significato alle parole, ritrova il puro piacere pittorico del gesto da cui originano i segni sulla tela che, a guardar bene, hanno un sapore arcaico eppure nuovo, familiare eppure lontano; ancorano i pensieri di chi, attento, si sofferma ad osservare l’opera, divenuta una sorta di cenotafio per Palinuro – abbandonato in mare e desideroso, quindi, di degna sepoltura – e un luogo di imperitura memoria per Pasolini, acuto, poetico osservatore di una società che non sopportava la sua scomoda verità.

Ma sul quel mare galleggia anche una barchetta, una di quelle che si costruiscono da bambini, piegando la carta: e dei bambini – e dell’artista – rappresenta i sogni, le attese, le speranze.

Ancora dèi, poi, e ancora sacrifici: come quello chiesto al Figlio Divino ucciso dagli uomini, rievocato attraverso parti di imbarcazioni restituite dal mare che ne ricordano il costato martoriato.

Non si avverte strazio, non si avverte dannazione nel trittico: a sottolineare il destino tragico che unisce i protagonisti dell’opera c’è solo una saetta; non di luce, però, di sangue. Il rigore formale dell’opera sottolinea con assoluta grazia il drammatico epilogo della vita dei due protagonisti.

E poi un dettaglio in oro – “colore di una tragicità e di una cattiveria assoluta”, come scrisse il poeta Michele Sovente, unito a Leone da un profondo rapporto di amicizia e stima, pienamente ricambiati   – a suggellare il doloroso e al contempo glorioso legame, voluto dall’artista, tra Pasolini e Palinuro.

Conclusioni

Possiamo concludere che, probabilmente, non ci potrebbe essere posto migliore di una nave per ospitare un’opera di Giuseppe Leone, e lo dimostrano le sue stesse parole: “in fondo, parafrasando T. S. Eliot, “io cerco, cerco, cerco”, per poi rendermi conto che l’unica cosa che riuscirò a trovare è il desiderio di cercare ancora. È come per l’orizzonte: tutti noi sappiamo benissimo che non potremo raggiungere il luogo dove il cielo si fonde con la terra, eppure quel traguardo è l’unità di misura del nostro cammino nel mondo” (da “Pensieri di un artista isolato. Giuseppe Leone”, su ArtsLife del 25 maggio 2020, ndr). La sua ricerca, dunque, non è altro che un continuo veleggiare, evidentemente sempre faventibus ventis, come dimostra la sua brillante carriera.

Una riflessione a margine: dell’uomo, l’intelligenza, il talento, la genialità provocano invidia nella divinità, ci suggerisce l’Arte di Giuseppe Leone. Dell’uomo, l’intelligenza, il talento, la genialità provocano invidia anche nel mortale, ci suggerisce la vita. E se, per questo, gli dèi odiano gli uomini, è altrettanto vero che gli uomini, a volte, per lo stesso motivo, odiano gli uomini.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.