LA CITTÀ DELLA cometa (Scena 3)

Scena 3

Le donne del presepe

L’amore tutto può

La tiene in grembo, stretta stretta: quella pietra, una bugia detta per amore, deve assolutamente somigliare a un bambino in fasce.

Poi, all’improvviso, “etciù!”. Si volta e le sorride. E il suo cuore scoppia di gioia.

Il cuore colmo di felicità è quello di Stefania, dolcissima presenza femminile che troviamo accanto alla Natività. Non era sposata e non era madre (secondo alcune versioni del racconto era sterile) quindi, per una motivazione non meglio specificata, non poteva avvicinarsi a Maria e adorare il suo bimbo appena nato. Ma l’amore non si è mai fermato davanti ai divieti, nemmeno sul presepe: così, la donna prende una pietra e la fascia a mo’ di infante, riuscendo ad ingannare gli angeli “di guardia” al piccolo Gesù. Arrivata al suo cospetto, quella materia fredda e inanimata starnutisce: diventa un bambino vero, in carne e ossa, grazie all’amore infinito e misericordioso di un altro Bambino appena nato.

Stefania e il piccolo Stefano, lab. La Scarabattola Napoli (foto da archivio)

Il piccolo si chiamerà Stefano che, si dice, si festeggia il giorno dopo il Natale proprio perché è il protagonista del primo miracolo di Gesù. Secondo la tradizione più nota, invece, quella data ricorda il primo martire cristiano, Santo Stefano, appunto.

Ma entrambe le versioni, tutto sommato, parlano d’Amore: quello di Santo Stefano per il suo Dio, che non rinnega e per il quale compie il sacrificio estremo, e quello del Figlio di Dio che, compassionevole, dona la Vita, rendendo madre Stefania e colmando il suo cuore di una gioia immensa.

Una statuina del presepe ci ricorda, a modo suo, che l’Amore può tutto.

Stefania, nella nostra Morcone, l’avremmo trovata nei pressi della grotta: la possiamo immaginare che cammina verso il Bambino seguendo la stessa via che, poco tempo prima, avevano percorso Giuseppe e Maria, quest’ultima in sella all’asino. Poi la vediamo arrivare davanti alla grotta: con lei ci sono gli zampognari, i pastori che hanno appena spento le fiaccole per andare ad adorare Gesù, i Re Magi appena scesi dai cavalli e, dal fondo del Parulo, i portatori di ‘ndocce di Agnone che, avvolti in neri mantelli a ruota, avanzano creando una scia di fuoco crepitante che contribuisce a rendere oltremodo suggestiva la scena finale del Presepe nel Presepe.

La Madonna che culla l’ultimo nato del paese (come ricorderete, è sempre il più piccolo dei morconesi a interpretare Gesù Bambino) viene scelta dagli organizzatori tra le ragazze del paese e, per ognuna, sempre, è davvero una grande emozione. Ve lo posso garantire personalmente: anche io l’ho interpretata, nel lontano 1996, anno in cui ci fu anche la folle e straordinaria trasferta a Spoleto per partecipare al 1° Festival dei Presepi Viventi, al quale venimmo invitati per portare un pezzo del nostro presepe in terra umbra.

Folle perché, il 6 gennaio del 1997, divisi in tre pullman partiti in piena notte, c’erano un centinaio di persone e una gran quantità di materiale che sarebbe servito ad allestire e rappresentare, ovviamente in piccolissima parte e per il breve tempo di un’esibizione, il nostro presepe. Straordinaria perché fu un’esperienza senza dubbio faticosa ma sicuramente appagante: c’è sempre molto orgoglio nel far conoscere le proprie tradizioni – e dopo più di 30 anni di impegno, costanza e lavoro, questa manifestazione si può certamente considerare tale – ad entusiasti spettatori di altre terre.

È solo uno dei tanti, bellissimi ricordi del presepe vivente che condivido con molti altri morconesi, organizzatori e figuranti che, instancabili, da sempre sono accomunati dallo stesso amore per il proprio paese e dalla medesima passione che non conosce ostacoli, unici nobili valori che alimentano questo amatissimo evento fin da quando è nato.

Il Presepe ne l Presepe: adorazione (ph. Mimmo Salierno)

Presagi

I vestiti, spesso logori, scoprono le forme procaci di una bella donna che ha tra le mani un cesto pieno di arnesi di metallo. Ha la pelle scura, gli occhi profondi e i capelli neri che scendono sulle spalle nude: è la zingara, personaggio che trova posto sul presepe perché, per le sue capacità divinatorie, è una figura assimilabile alle sibille profetesse, soggetti immancabili nei presepi più antichi.

Se, nelle notti di Natale, sentiamo il verso di una civetta, ricordiamoci che potrebbe essere proprio una di queste, la Sibilla Cumana: una leggenda racconta che, avendo ella predetto la nascita del Redentore, si era illusa di essere la vergine che l’avrebbe partorito. Il suo peccato di presunzione venne punito e si trasformò in un animale notturno, forse proprio una civetta.

La nostra bella zingara, a Morcone, l’avremmo trovata nei pressi di un’osteria oppure vicino ad una fontana, come quella posta accanto all’antica Porta Stampatis – oggi distrutta- da dove, forse, era entrata giungendo in paese, venendo da chissà quali terre lontane. Stanca, sola e straniera, si era fermata per una breve sosta, prima di riprendere il lungo cammino verso la Natività, per adorare colui che è nato per la salvezza di tutti gli uomini di buona volontà: nella rappresentazione della nascita di Gesù c’è posto per tutti e non c’è distinzione tra residenti e stranieri, non esistono rimpatri e respingimenti, non ci sono posti di blocco da superare.

Nei pressi dell’antica Porta Stampatis (ph. Marino Lamolinara)

Abbiamo accennato a degli strumenti metallici che la gitana porta con sé: sono proprio questi che rappresentano il suo triste presagio, quello della futura morte per crocifissione del Bambino che sta nascendo nella grotta. Il metallo di cui sono fatti ricorda quello con cui saranno forgiati i chiodi che trafiggeranno le membra di Gesù.

Questa donna, quindi, suo malgrado, è portatrice di un messaggio di dolore per un’altra donna: la sua presenza, infatti, ricorda a Maria che l’amato figlio che ora stringe tra le braccia perirà per mano degli stessi uomini che Egli è venuto a salvare. Ma una leggenda popolare, che si tramanda per lo più oralmente, riporta un dettaglio dolcissimo, materno, carezzevole: nella cesta i chiodi erano quattro, i primi tre dovevano servire per inchiodare le mani e i piedi del Signore. Ne rimaneva uno: la zingara lo sottrasse dal cesto, sapendo che era quello che avrebbe dovuto trafiggere il cuore del figlio di Maria.

Lavandaie e levatrici    

La lavandaia sul presepe rappresenta la testimone del parto verginale di Maria e la sua figura, nella narrazione, si confonde con quella della levatrice, fino a diventare tutt’uno: la sua presenza deriva da sacre rappresentazioni medievali, dall’iconografia orientale e da tradizioni cristiane extraliturgiche. Il suo compito è quello di lavare il Bambino e poi stendere ad asciugare i panni del parto (probabilmente, questo atto allude anche al voler lavare via le colpe, il peccato): ma la lavandaia di Maria avrà ben poco da fare perché i panni che si troverà tra le mani saranno candidi, a testimoniare la verginità della Madonna.

Nel nostro presepe a grandezza naturale, la troveremmo presso il lavaturo di Piazza del Pozzo o quello che si trova nello slargo di Via Capozzi, in pieno percorso del Presepe nel Presepe: qui, le nostre coraggiose figuranti, ai primi di gennaio, noncuranti delle rigide temperature, lavano e chiacchierano, strofinano e cantano, suscitando stupore e ammirazione nei tanti spettatori, magari riportando alla memoria dei più appassionati la superba scena del Coro delle lavandaie de La Gatta Cenerentola.

Lo slargo di Via Capozzi con il lavaturo (ph. Marino Lamolinara)

Spostiamoci, ora, nella grotta. Nei Vangeli Apocrifi si legge che accanto alla Madonna partoriente ci sono diverse levatrici, indaffarate e premurose: tra queste, però, ce n’è una, tale Salomè, che proprio non riesce a credere che Maria sia vergine tanto che, scettica fino a diventare sfrontata, osa toccarla per accertarsi che sia vero quanto sentito. La sua impudenza è punita immediatamente e la mano le si incenerisce. Ancora una volta, come per Stefania, l’Amore del Bambino appena nato vince su tutto e, al solo toccarla, la mano guarisce.

Ma avviciniamoci alla scena e guardiamo con più attenzione Salomè: a quanto pare, da sotto la sua veste spunta uno zoccolo caprino. Ella, infatti, sarebbe addirittura il diavolo travestito da donna, venuto ad accertarsi “di persona” della nascita di un fanciullo divino da madre vergine.

Intrigante la riflessione che offre, a proposito di questa levatrice, l’analista junghiano Claudio Widmann, che la definisce “la prima leggendaria miscredente nella storia del cristianesimo”: “il suo comportamento può suonare dissonante nell’atmosfera estatica che avvolge la nascita divina, ma è il più umano che si riesca a immaginare. Probabilmente si comporterebbe così ogni individuo dotato di capacità critica: con realistico buonsenso e con una certa dose di spirito pratico”.

Per niente poetico, anche dissacrante, ma estremamente interessante.

Ed è niente in confronto a quanto afferma per concludere: “Salomè è colei che più concretamente entra in contatto con la realtà inafferrabile del mistero ed è quella che ne trae la conoscenza più diretta, la visione più lucida e toccante. Il diabolico è sempre in bilico tra materialismo e spiritualismo: chiama alla concretezza e talvolta degenera nel concretismo, ma inclina sempre alla profondità, anche a rischio di sprofondare negli inferi” (da La simbologia del presepe, di Claudio Widmann).

La monaca di casa

Una facciata imponente di un edificio posto in una posizione piuttosto appartata, a ridosso del vallone del torrente San Marco, che si ammira con sorpresa dopo essersi arrampicati su per le scale del paese: è Casa Sannia, antica dimora storica del centro antico di Morcone, appartenuta all’omonima famiglia e probabilmente costruita nel XVI secolo. Certo, può venire un po’ di fiato corto a raggiungerla, ma ne vale la pena.

Del resto, ci sarà un motivo se la monaca di casa, un personaggio ormai scomparso dai presepi napoletani, potrebbe tornare a vivere – almeno nel nostro racconto- proprio in questo storico palazzo.

Anche detta beghina (o bizzoca), ella indossava l’abito di una congregazione pur senza vivere in comunità ed essere soggetta ad una vera e propria regola monastica; spesso aveva il ruolo di insegnante.

In questo nobile palazzo morconese, abitato fino alla metà del Novecento, la nostra monaca avrebbe avuto a sua disposizione l’intera Biblioteca Comunale, con un patrimonio librario di circa 7000 volumi tra cui manoscritti, edizioni dal Cinquecento all’Ottocento, periodici e carte musicali; avrebbe potuto utilizzare la cucina, con il suo focolare, i fornelli antichi e gli oggetti tipici della civiltà contadina novecentesca che vi avrebbe trovato all’interno, preparando ottimi manicaretti tipici morconesi. Scendendo al pian terreno, avrebbe potuto ammirare una collezione di campane provenienti dalla varie chiese di Morcone e non sarebbe stato, questo, il suo unico svago: per diverso tempo e fino a svariati anni fa, le note degli allievi della Scuola Civica Musicale “Accademia Murgantina” avrebbero allietato le ore trascorse in casa e, ancora, avrebbe potuto ammirare opere d’arte antica e contemporanea o cimentarsi negli esperimenti scientifici proposti dal direttore del Museo Scuola “Achille Sannia”.

E, non paga di tutto ciò, si sarebbe potuta godere gli insoliti giardini affacciati sul torrente San Marco e il piccolo, intimo anfiteatro di pietra che, più volte, negli anni, è diventato piacevolissima sede di concerti, spettacoli teatrali ed eventi culturali di vario genere.

La beghina, quindi, se avesse deciso di diventare morconese d’adozione, avrebbe avuto un bel daffare a Casa Sannia e, magari, visto il variegato patrimonio culturale a disposizione, sarebbe diventata un’eccellente organizzatrice di eventi ante-litteram.

 “Fila la lana, fila i tuoi giorni…”1

“(…) C’è la Cardalana, quella che fila, che ha la sua storia. Eccola qua. La Cardalana si chiamava Leonarda, Narda, e questa vecchia doveva filare e fare sta maglia la notte di Natale, e se non finiva entro otto giorni, non poteva morire. E così la notte stessa di San Silvestro, il Bambino pare che si alza e va dalla vecchia, si prende la maglia e la fa morire. (…) Lui – Gesù Bambino– si alza, e si ripresenta otto giorni dopo Natale, quando Gesù incominciò a camminare. Diceva la canzoncella, quanno Gesù Bambino parla co la vecchia:

Na cosa mò ti la dico:

Tu me daie la cammesella

e io ti porto ‘m Paraviso.

Lei consegna la camicetta, la maglietta, e subito dopo muore”.

Questo testo sbobinato è tratto da un’intervista di Roberto De Simone e Annibale Ruccello – riportata ne Il presepe popolare napoletano, di R. De Simone- registrata nel 1970 in Puglia, a Grottaglie, in cui Emanuele Esposito, “modellatore di figurine presepiali”, racconta della Cardalana, delicato personaggio femminile presente anche sul presepe napoletano.

La Cardalana, lab. La Scarabattola Napoli (foto da archivio)

La storia, dolce ma ricoperta da un velo di tristezza, riportata nello stile semplice dell’oralità, tratteggia con grazia questa figura di vecchierella, assorta nel suo lavoro che sa essere l’ultimo che farà.

A Morcone io la immagino sotto il pergolato di uva fragola della casa di Nunziata, la mia vicina di casa dell’infanzia, una donna forte, di altri tempi, instancabile lavoratrice che, con il personaggio del presepe, aveva in comune, in qualche modo, la dimestichezza con i tessuti: era una commerciante di stoffe. E forse anche l’età: Nunziata ci ha lasciati che era ultracentenaria.

Sul presepe, la sua corrispondente in terracotta la potremmo trovare dentro una casetta di cui si intravedono i mille dettagli da una finestra aperta, o su un balconcino, all’aperto, tra pomodorini del piennolo appesi da un lato e meloni di Natale (quelli verdi, dalla buccia ruvida) dall’altra. Forse, da qualche parte, c’è anche una cajola con un uccellino dentro.

Simbolicamente, le donne che filano, che tessono e che lavorano la lana alludono alle Parche, le divinità della mitologia romana che stabilivano il destino degli uomini, dalle decisioni immutabili che nessuno aveva il potere di modificare.

La non meglio specificata vecchia che fila la lana,per alcuni autori,potrebbe poi simboleggiare il tempo che passa nell’attesa dell’evento della Nascita: tessere o filare, dunque, sinonimi di aspettare. Del resto, Penelope tesseva in attesa del suo Ulisse; secondo alcune versioni dell’evento, Maria tesseva quando ricevette l’Annuncio dall’angelo; e tessono anche le nostre abilissime figuranti durante il presepe vivente, in un ambiente appena fuori Porta San Marco, a pochi metri dal luogo dove nascerà il nostro Gesù Bambino. Adoperando con destrezza un telaio antico, le tessitrici incantano i visitatori che, ad ogni passaggio della spoletta, vedono il tessuto crescere sotto i loro occhi.

E, insieme, ingannano l’attesa della Nascita.

(da LA CITTADELLA, ottobre 2020)

(continua a leggere, Scena 4)

  1. dal brano Fila la lana di F.De André []

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